1-CONSIGLIO COMUNALE SIENA 2024

Siena: l’intervento integrale del Professor Marcello Flores sul “Giorno del Ricordo”

09 Febbraio 2024

Giorno del Ricordo/Siena 2024
Gentile Presidente del Consiglio Comunale, Consigliere e Consiglieri,
vorrei innanzitutto ringraziare il presidente del Consiglio Comunale dott.
Davide Ciacci per l’invito che mi ha fatto, permettendomi di tornare in
quest’aula dopo molti anni. Il Giorno del Ricordo ha esattamente vent’anni.
Fu istituita nel marzo 2004 per “conservare e rinnovare la memoria della
tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre
degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa
vicenda del confine orientale”. Proprio in virtù di questa ormai lunga
tradizione sembrerebbe ridondante ricordare l’esperienza storica che ne è
alla base, anche se le riflessioni che questa data può suggerire sono
molteplici ed è quindi importante, non solo in omaggio alla legge memoriale
voluta dal nostro Parlamento, continuare a parlarne.
Tutte le leggi memoriali – forse perché istituite a oltre mezzo secolo di
distanza dai fatti che richiamavano – sono state a volte oggetto di polemiche,
oltre che dell’ovvio dibattito storiografico che inevitabilmente, e
fortunatamente, continua offrire nuovi spunti interpretativi, nuova
documentazione, narrazioni più incisive. L’oggetto storico alla base del
Giorno del Ricordo – le foibe e l’esodo istriano-dalmata – ha avuto un tasso
polemico probabilmente maggiore perché si è trattato di un evento che, per la
stragrande maggioranza degli italiani, è stato conosciuto e approfondito solo
abbastanza di recente. Anche la Shoah, del resto, che è stata alla base della
legge memoriale che ha preceduto di quasi quattro anni quella che
celebriamo oggi, ha avuto la possibilità di essere conosciuta a livello di
massa soltanto alla fine degli anni ’70, grazie al fiorire di memorie, diari,
racconti, studi storici ma soprattutto di un serial televisivo, Holocaust,
mandato in onda negli Stati Uniti nel 1978 e subito dopo anche in Italia e
Germania.
Spero mi permetterete un ricordo personale. Ho iniziato fortunatamente molto
giovane il mio insegnamento universitario, a Trieste nel 1975. Lì, l’anno
successivo, ci sarebbe stato il processo ad alcuni responsabili della Risiera di
San Sabba, l’unico esemplare di lager nazista in Italia, ma nello stesso tempo
dei giovani ricercatori avevano iniziato a indagare e scrivere, sulla scorta di
una nuova e ampia documentazione archivistica, delle foibe e dell’esodo.
Ricordo che domandai perché non si portasse a conoscenza di un più vasto
pubblico la massa di informazioni raccolte e le ipotesi interpretative che
iniziavano a essere elaborate. La risposta che mi venne, anche da grandi e
autorevoli storici, che più tardi ne avrebbero parlato e discusso, fu che non si
poteva perché l’argomento foibe-esodo a Trieste veniva subito
strumentalizzato politicamente e si rischiava così di non poter svolgere
un’adeguata opera di informazione e di educazione storica.

Ancora oggi io sono convinto – come lo sono per ogni evento storico,
grandioso o tragico esso sia – che proprio il fatto di non parlarne, appena vi
era la possibilità di nuove conoscenze, ha costituito un errore imperdonabile,
che ha alimentato la prosecuzione di polemiche a volte strumentali, e ha
soprattutto ritardato che la conoscenza e la consapevolezza collettiva su
quegli eventi potesse essere costruita e approfondita.
Proverò, adesso, a riassumere quali sono i risultati conseguiti dalla ricerca
storica e a dare qualche suggerimento su alcune ipotesi interpretative che
ancora dividono, tenendo presente che se nella legge istitutiva si è voluto
parlare della “complessa vicenda del confine orientale”, noi dobbiamo
continuare a fare in modo che quella complessità venga adeguatamente
conosciuta. Se forse nei primi anni è stato comprensibile un racconto
sintetico, minimalista, e probabilmente un po’ schematico, perché occorreva
ribadire la verità storica di alcuni fatti, oggi dobbiamo avere la responsabilità,
soprattutto nei confronti dei giovani (per i quali, permettetemelo di ricordarlo,
quegli eventi sono lontani come lo erano dalla mia generazione la Breccia di
Porta Pia e da molti di voi la battaglia di Adua o l’uccisione di Umberto I), la
responsabilità, dicevo, di raccontare la storia nella sua complessità.
Dirò cose che ovviamente già sapete, ma è importante ricordare i fondamenti
di ogni avvenimento storico: il contesto, i fatti, l’interpretazione.
Il contesto è quello della seconda guerra mondiale, e in modo particolare di
territori che l’Italia possiede dagli anni successivi alla prima guerra mondiale:
territori che hanno visto, durante il fascismo, un’opera forzata di
snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate, di violenza contro di
loro, a partire dall’incendio del Narodni Dom nel luglio 1920 e fino alle
condanne a morte da parte del Tribunale special fascista (delle 31 condanne
a morte eseguite ben 26 riguardavano cittadini italiani di lingua slovena o
croata). Nella guerra l’Italia fascista partecipò da subito, nell’aprile 1941,
all’invasione del Regno di Jugoslavia, annettendosi la provincia di Lubiana e
ampliando le provincie di Fiume e della Dalmazia e operando con forme di
violenza che colpirono spesso i civili tra il 1941 e il 1943, come indicava la
circolare 3C del generale Roatta del 1° marzo 1942, secondo cui “tutti devono
essere considerati nemici”, “non si devono fare prigionieri”, il trattamento “non
deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente, ma bensì da quella
‘testa per dente’”.
Questo è il retroterra, di guerra e violenza, che costituisce un contesto che
non va dimenticato, ancora poco conosciuto, che il Presidente Mattarella ha
sempre voluto ricordare, ma che non può in ogni modo essere considerato
come giustificazione per le violenze che hanno luogo in Istria nel settembre
1943, nei giorni immediatamente successivi alla firma dell’armistizio dell’8
settembre.
Quelle che sono diventate note come le «foibe istriane» riguardano un
massacro che ha luogo mentre si combatte la prima grande battaglia
partigiana, quella di Gorizia, e che riguarda l’intera penisola istriana, anche se

il suo centro sarà la cittadina di Pisino. Le vittime di queste prime foibe sono
gerarchi e funzionari civili e militari dell’amministrazione fascista, ma anche
possidenti e notabili, chiunque rappresenti agli occhi degli insorti la
minoranza italiana che ha dominato sulla maggioranza slovena e croata
dell’Istria. L’insurrezione è, inizialmente, largamente spontanea, accanto a
reparti di partigiani jugoslavi vi è la violenza dei contadini contro i proprietari
terrieri italiani. Nel castello di Montecuccoli a Pisino s’instaura un comitato
rivoluzionario, che ordina decine di esecuzioni, prima nelle cave di bauxite e
poi, dopo la fuga di un condannato, nelle foibe vicine. Al di là delle uccisioni
maggiormente spontanee, quelle del tribunale rivoluzionario riguardano i
«nemici del popolo», una categoria ampia in cui entravano non solo fascisti e
collaboratori del regime ma chiunque non si schierava apertamente con
l’esercito partigiano.
Diverso il caso delle foibe triestine, che sono il luogo di uccisioni e massacri
compiuti dall’esercito di liberazione jugoslavo nel maggio 1945, che è giunto
per prima a liberare Trieste e dintorni dalle truppe nazifasciste e che pratica
un’intensa violenza prima che gli accordi con le truppe alleate firmati a
Belgrado il 9 giugno congelino la situazione in attesa del trattato del
settembre 1947. I quaranta giorni dell’occupazione di Trieste sono
caratterizzati dal controllo capillare dell’OZNA, la polizia segreta jugoslava
ispirata al modello sovietico: le violenze sono progettate ed eseguite da un
potere politico-statale (la nuova Jugoslavia comunista) e non più da gruppi
spesso incontrollati che cercano vendetta per la passata oppressione. Non è
un caso se già il 30 marzo il comitato centrale del partito comunista sloveno
aveva scritto: “Tutti gli elementi ostili devono essere imprigionati e consegnati
all’Ozna. Va seguito il principio di non concedere troppa democrazia. Epurare
subito, però non sulla base della nazionalità, ma del fascismo. Tra Trieste e
Gorizia sono arrestate tra 10 e 12 mila persone: molti sono fascisti e
collaboratori, ma dal momento che è sufficiente il sospetto, tutti coloro che
sono contrari a una Venezia Giulia jugoslava e comunista possono essere
perseguiti. La scelta della repressione è politica, anche se inevitabilmente
colpisce esclusivamente gli italiani, verso cui sono in molti, nell’esercito di
liberazione jugoslavo, a nutrire un’ostilità che non è soltanto politica ma
anche nazionale. La discriminante di fondo, però, è l’accettazione o il rifiuto
del nuovo potere che i partigiani di Tito vogliono imporre. Ha riassunto bene
la questione interpretativa di fondo forse il maggiore studioso di queste
vicende, Raoul Pupo:
“L’obiettivo della repressione sono stati gli italiani in quanto italiani»? è falso
se
Il termine «italiano» viene utilizzato nel suo significato etnico, perché una
prospettiva del genere è estranea alle linee-guida della repressione, che
dicono il contrario; è invece vera se «italiano» viene inteso come una
categoria politica, espressione di appartenenza allo stato italiano, perché
questa sì, viene considerata colpa grave che può condurre alla morte”.

E infatti tra le vittime delle foibe troviamo non soltanto aguzzini fascisti che
hanno collaborato con le autorità naziste di occupazione ma membri della
Guardia di Finanza che hanno partecipato all’insurrezione antitedesca e
addirittura membri del Corpo volontari della libertà e membri del Comitati di
liberazione nazionale triestino.
Il simbolo indiscusso delle stragi del maggio 1945, delle foibe giuliane, è la
foiba di Basovizza, che si trova vicino al poligono militare dove nel 1930
erano stati giustiziati quattro sloveni condannati a morte dal Tribunale
speciale fascista. Qui, dove già erano stati gettati i cadaveri dei tedeschi
durante l’insurrezione, il tribunale militare della IV armata jugoslava condanna
circa 500 persone, che verranno fucilate e gettate nella vecchia miniera di
carbone abbandonata. I tentativi di recuperare i corpi nel dopoguerra
falliranno, per la grande mole di detriti presenti, di carcasse di animali, di
munizioni inesplose. Supposizioni basate sulla profondità fanno salire il
numero dei possibili infoibati di Basovizza a 1500 e poi addirittura a 2500, in
una guerra di numeri che soltanto gli studi successivi proverà a sciogliere: e
che individuerà in circa 3000-35000 vittime gli uccisi nelle foibe giuliane nel
maggio 1945.
Come venne scritto nel 2000 nella relazione finale della Commissione storico-
culturale italo-slovena: “Tali stragi si verificarono in un clima di resa dei conti
per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un
progetto politico predeterminato… un disegno di epurazione preventiva di
oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime
comunista e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo”.
La violenza delle foibe non va confusa con una violenza diversa, che ha
luogo due-tre anni dopo e che riguarda l’esodo cui furono spinti e spesso
costretti centinaia di migliaia di abitanti dell’Istria e della Dalmazia, in gran
parte italiani ma spesso che si autodefinivano soltanto come istriani e che
parlavano soltanto il dialetto istro-veneto. Chi fugge lo fa perché non vuole
vivere in un regime totalitario che si mostra sempre più dittatoriale, che
discrimina le minoranze linguistiche e nazionali malgrado una parità formale
sul terreno legislativo e le considera non affidabili e inclini a divenire
«nemiche del popolo». Nel censimento del 1947, fatto in seguito al trattato di
pace, l’opzione per la cittadinanza italiana diventa più numerosa del numero
degli italiani, segno di una volontà di fuggire dal paese, che le autorità
jugoslave cercheranno di impedire con complicazioni burocratiche e a volte
con la violenza. Il dramma dell’esodo non fu solo dover abbandonare terre e
averi dove si era vissuti per generazioni, ma anche quello di un’accoglienza
ambigua e spesso ostile nell’Italia che cercava di ricostruirsi dalle distruzioni
della guerra.
Vorrei terminare ricordando il momento di maggiore speranza per la
ricomposizione di memorie divise che si è avuta pochi anni addietro. Nel
luglio del 2020 il Presidente Sergio Mattarella, insieme al suo omologo della
Slovenia Boris Pahor, si tennero per mano di fronte alla foiba di Basovizza,

prima di rendere omaggio al cippo degli antifascisti sloveni condannati dal
Tribunale speciale fascista. "Le esperienze dolorose sofferte dalle popolazioni
di queste terre non si dimenticano" ha ricordato Mattarella. "Proprio per
questa ragione il tempo presente e l'avvenire chiamano al senso di
responsabilità a compiere una scelta tra fare di quelle sofferenze patite da
una parte e dall'altra l'unico oggetto dei nostri pensieri coltivando i sentimenti
di rancore, oppure al contrario farne patrimonio comune nel ricordo e nel
rispetto, sviluppando collaborazione, amicizia, condivisione del futuro. In
nome dei valori oggi comuni: libertà democrazia pace".

About the author

Pier Camillo Pinelli

Ex Fantino, ora Editore e Direttore responsabile di questo Giornale online e la penso così: "per farsi dei nemici non è necessario dichiarare Guerra, basta dire quel che si pensa" (Martin Luther King)
per mail: piercamillopinelli@gmail.com

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